Considerazioni preliminari

Innanzitutto, è bene precisare che non sono una consulente filosofica o una sedicente tale (purtroppo, esiste anche questa categoria). L'obiettivo di questo blog è quello di fornire alcune informazioni di base sul mondo della Consulenza filosofica. Ho avuto modo di svolgere delle ricerche sulle pratiche filosofiche e, in particolare, sulla consulenza: il frutto di queste ricerche è la mia tesi di laurea. Credo che esistano molti luoghi comuni sulla Consulenza filosofica, probabilmente legati a quelli sulla Filosofia, spesso originati dalla superficialità con cui essa viene presentata. Non pretendo di dissolvere completamente i vostri dubbi ma semplicemente di costruire una sorta di "spazio neutro"; sia ben chiaro, la neutralità assoluta non esiste, ognuno parte da supposizioni e, in effetti, io ho una mia precisa idea della consulenza filosofica. Semplicemente, non sono una consulente filosofica, non ho nessun servizio da offrire, non devo convincere nessuno della bontà della mia missione.

sabato 13 dicembre 2008

Peter Raabe su Psicoterapia e Consulenza filosofica


Abbracciare una distinzione tra la consulenza filosofica e le procedure della psicoterapia definita in senso stretto come psicoanalisi è facile . Ma quando la psicoterapia è definita in modo più ampio e abbraccia le numerose terapie esistenziali, cognitive e comportamentali, le differenze procedurali sembrano essere offuscate dalle molte sostanziali somiglianze

PETER B. RAABE, TEORIA E PRATICA DELLA CONSULENZA FILOSOFICA1


Peter Raabe, in quello che può essere considerato uno dei primi manuali di consulenza filosofica2, dedica un lungo e dettagliato capitolo al confronto tra consulenza filosofica e psicoterapie. Il consulente giunge alla conclusione che tra le due pratiche non esiste una grandissima differenza considerando che “alcuni approcci alla psicoterapia sono di fatto dichiaratamente filosofici” e che “i loro professionisti condividono la capacità di filosofare e possono essere assai abili nell’attingere alle filosofie occidentali e asiatiche per ispirare il trattamento dei loro clienti”3.Raabe, sottolinea come tutte le nuove professioni, tra cui non fa eccezione la consulenza filosofica, abbiano la necessità di demarcare il proprio dominio, enfatizzando, ad esempio, le loro caratteristiche peculiari e le loro differenze in relazione ad altre pratiche del settore4.

Tuttavia, la consulenza filosofica può distinguersi nettamente solo dalla psicoterapia ad orientamento psicoanalitico classico, mentre con altre forme presenta più affinità. Essenzialmente per il fatto di condividere alcuni presupposti di base come, ad esempio, l’importanza della “partecipazione attiva del cliente” e il rifiuto di ogni “ prospettiva paternalistico-psicoanalitica”5.

Quindi, per quanto riguarda il panorama della psicoterapia in senso ampio, per Raabe, non sussistono elementi sufficiententemente chiari capaci di distinguere il consulente filosofico dallo psicoterapeuta, al di fuori della semplice constatazione di fatto che il primo possiede una maggior preparazione in campo filosofico. Anche per quanto riguarda la relazione cliente/terapeuta, la consulenza filosofica si distingue nettamente solo dalla terapia psicoanalitica classica.

Quest’ultima, infatti, guarda al cliente da una “posizione di progetto”, secondo cui non sono importanti tanto le ragioni che il cliente esprime, quanto quello che sta dietro a tali ragioni. Ad esempio, “se il cliente dice ‘sono depresso perché ho perso la fede in Dio’, il terapeuta, usando la ‘posizione di progetto’ eviterà di occuparsi del problema di Dio e cercherà invece di scoprire le dinamiche inconsce che stanno dietro questa depressione”6.

La consulenza filosofica, insieme ad altre forme di psicoterapia, assumerebbe, al contrario, una “posizione intenzionale”, in cui si considera il cliente come “una persona autonoma che è sì influenzata dalle sue credenze, dai suoi desideri e così via, ma non è determinata solamente dal suo inconscio”7.

Per quanto riguarda gli obiettivi, una sola differenza degna di nota consisterebbe nel fatto che gli psicoterapeuti ammettono di avere l’intenzione “di aiutare i loro clienti a raggiungere un cambiamento per il miglioramento delle loro vite”8. Il consulente filosofico, almeno così come lo intende Achenbach, dovrebbe invece riuscire a “resistere alla tentazione di porre un tale obiettivo nel processo di consulenza”9. Tuttavia, osserva Raabe, il cambiamento non può che essere un elemento imprescindibile della consulenza filosofica, per quanto questo non voglia essere dichiarato apertamente.

Il consulente canadese, si riferisce qui ad uno degli elementi basilari della sua concezione della disciplina: essa deve avere una chiara e intenzionale finalità pedagogica. Questo significa che il consulente filosofico, in quanto si prefigge di “aiutare il cliente a ottenere una più grande libertà intellettuale e un’autonomia noetica” non può esimersi dall’insegnargli “le abilità e le attitutini necessarie per farlo”10.

Per Neri Pollastri, invece, nonostante le somiglianze esistenti tra la consulenza filosofica e alcune scuole psicoterapeutiche, non si può dimenticare che: “tutte, in un modo o nell’altro, ripropongono come essenziale l’uso di ‘strategie e tecniche’ di tipo psicologico, che viceversa sembrano dover restare sistematicamente fuori dall’orizzonte della relazione di consulenza filosofica; tutte, anche se con accenti diversi, assumono la centralità del ‘disagio’ e lo concettualizzano come una forma di ‘patologia’”11.


1 Cfr. P. B. Raabe, Teoria e pratica della consuenza filosofica, cit., p. 126

2 P. B. Raabe, Teoria e pratica della consuenza filosofica, Apogeo, Milano, 2006

3 Ivi, p. 103

4 Ivi, p. 89

5 Ivi, pp. 107-108

6 Ivi, p. 108

7 Ivi, p. 109

8 Ivi, p. 120

9 Ivi, p. 116

10Ivi, pp. 165-166

11 N. Pollastri, Osservazioni per una definizione della consulenza filosofica, in “Kykéion ,8, 2002, cit., p. 59

venerdì 22 agosto 2008

Il mito della caverna e la pratica filosofica

Riporto qui sotto una parte dell'interessantissimo intervento che Jon Clayt Graziano di Phronesis (Associazione italiana per la consulenza filosofica) ha tenuto alla IX Conferenza internazionale sulla pratica filosofica svoltasi lo scorso luglio a Carloforte, in Sardegna.
Si tratta di una riflessione di estremo interesse perchè riesce a centrare in pieno quella che è, non solo una delle principali difficoltà della consulenza filosofica ma anche una delle più grandi difficoltà della filosofia stessa, naturalmente, da Platone in poi: il ritorno alla caverna.


Nel suo mito della caverna, che Ran Lahav porta spesso come metafora della pratica filosofica, Platone avverte di questo pericolo dell’irriconoscenza (ingratitudine). Il problema, infatti, non è quello di liberarsi dalle catene, non è ‘riuscire a girare la testa per vedere la luce ‘, come dice Lahav (1). Il vero problema viene dopo, quando i prigionieri della caverna sono incapaci di riconoscere il prigioniero liberato. Nel famoso mito il prigioniero liberato che esce dalla caverna e conosce la verità delle cose, ossia il filosofo, una volta ‘abbronzato’ dal sole della verità, allorquando rientra nella caverna per avvertire e liberare gli altri, non viene creduto, o meglio, viene creduto pazzo, deriso e poi ucciso dagli stessi prigionieri! Socrate docet! Un tale assassinio è naturale e avviene perché i prigionieri sono incatenati dall’infanzia e quindi ovviamente increduli che esista un altro mondo fuori dalla caverna: a loro non interessa certo la luce del filosofo, essi sono molto più preoccupati delle proprie ombre. Inoltre non dimentichiamo che il filosofo, rientrato nella buia caverna dopo aver contemplato la luce della verità, non vede bene, è come accecato, e appare impacciato nei suoi movimenti. E' normale che gli altri prigionieri lo ritengano come un pazzo o un ubriaco. Il filosofo praticante non è quindi colui che vede la luce dopo il buio della caverna: questi potrebbe essere anche un mistico o un pazzo. Al contrario il vero filosofo è colui che, dopo aver visto la luce decide di ritornare nel buio, spinto da un obbligo morale.
La vera vita filosofica non è quella che cerca la luce, ma quella che trova nell’oscurità. Perciò ritengo che sia molto più utile istruire un filosofo a rientrare nella caverna, piuttosto che ad uscirne.
La filosofia aiuta ad uscire dalla caverna; la pratica filosofica serve invece a saperci rientrare. Per uscire dalla caverna esistono molti metodi, che ci vengono dati si dalla filosofia, ma anche dalla musica, dall’amore, dalla pazzia stessa.
Per rientrare nella caverna, invece, i metodi diventano inutili. La pratica filosofica quindi può tranquillamente rinunciare ai metodi propri della filosofia. Essa però deve fare affidamento a competenze, ad abilità che il filosofo è tenuto ad acquisire.
Acquisire competenze equivale a saper aggiustare la vista quando, dopo aver contemplato la luce del sole, si decide di rientrare nell’oscurità della caverna. Ora, dal momento che sono convinto che in Italia (ma anche all’estero) per i prossimi venti anni non sarà ancora possibile parlare di pratica filosofica da un punto di vista professionale (sia perché la società non è ancora pronta a tollerare una simile professione, sia perché molti degli stessi filosofi non sono pronti a ‘scendere nella caverna'), e dal momento che mi ritengo alquanto giovane, mi piacerebbe spendere i prossimi anni della mia vita ad istruire i filosofi che vogliano divenire praticanti, per prepararli ad entrare più agevolmente nella caverna. In tal senso, la mia ‘arma’ preferita rimane la provocazione.

(1)
Parole di Ran Lahav durante un discorso al I Convegno Nazionale di Phronesis a Roma, il 26 febbraio 2005. Il discorso è stato poi pubblicato come articolo intitolato ‘Consulenza filosofica
come filosofia speculativa ’, sul numero 4 (Aprile 2005) della rivista Phronesis.