La Consulenza filosofica nasce in Germania con il nome di Philosophische Praxis ad opera di Gerd Achenbach che, nel maggio del 1981, a Bergisch Gladbach, cittadina situata in un territorio boscoso della Bergisches Land, vicino a Colonia, apre il primo studio professionale di Consulenza filosofica (Institut fϋr Philosophische Praxis und Beratung). L’anno seguente, fonda la prima associazione di consulenti: la Gesellschaft fur Philosophisce Praxis (GPP).[1]
Achenbach decide di fondare la Philosophische Praxis sulla scorta di una triplice insoddisfazione. Prima di tutto, quella nei confronti della filosofia accademica, a suo parere ormai totalmente estranea alle problematiche reali della vita delle persone. La seconda insoddisfazione è quella riguardante le professioni d’aiuto psicologico che, in quanto ancorate al paradigma strumentale e terapeutico, si basano su una “forma di comunicazione distorta” in cui il paziente deve sottomettersi a un qualche schema generale di normalità e salute[2].
In terzo luogo, Achenbach, vuole superare l’idea che la filosofia possa essere applicabile alla stregua di un trattamento medico: “la filosofia non viene ‘applicata’ come se i problemi dell’ospite potessero venire trattati con Platone, con Hegel, o con qualche altro. Le letture non sono una medicina che si possa precrivere. C’è forse qualcuno che va dal dottore, quando è malato, per ascoltare una lezione di medicina?”[3]. Ciò sta a significare che il consulente filosofico non è da intendersi come un esperto che applica la filosofia: egli stesso è la filosofia nel suo essere istituzione concreta e particolare.
Il consulente filosofico nella Philosophische Praxis, non mette a disposizione solo le sue conoscenza filosofiche ma anche e, soprattutto, la sua capacità di porre “in questione ciò che gli altri fanno passare per ovvio”[4],ossia quello che si può denominare come una vera e propria capacità dialogica per cui lui e la persona che lo consulterà “potranno dar vita a un dialogo filosofico, che si avvierà da concrete questioni della vita reale e rimarrà ad esse ben ancorato, grazie proprio alla presenza dell’ospite, che sperimenterà su di sé e sulla propria esistenza le riposte emerse, ma al tempo stesso si svilupperà e s’innalzerà verso l’universalità e l’astrazione della ricerca, grazie alla presenza del filosofo, che metterà in gioco tutto il suo bagaglio di conoscenze, competenze e capacità logico-argomentative”[5].
Nonostante esista un consenso pressochè unanime nel riconoscere Achenbach come fondatore ufficiale della Philosophische Praxis, sia come nuova branca della filosofia, sia come nuova professione, i consulenti di area anglosassone, tendono a ridimensionare la portata innovativa del consulente di Colonia. Secondo Peter Raabe, ad esempio, tra i precursori della Consulenza filosofica si possono annoverare Carl Rogers, Viktor Frankl e Albert Ellis, che, a partire dagli anni Cinquanta, hanno incominciato a inserire “l’elemento filosofico” nei loro rispettivi approcci psicoterapeutici[6]. Inoltre, sempre Raabe menziona un articolo di Seymon Hersh intitolato The Counseling Philosopher pubblicato sulla rivista “The Humanist” in cui il consulente viene paragonato ad una specie di allenatore il cui compito è quello di aiutare i suoi clienti a trarre maggior investimento dalla vita[7]. Del resto, è anche vero che, come scrive Augusto Cavadi, “la professione è nuova, ma sino a un certo punto: da sempre, infatti, fare filosofia ha significato diventare ‘ consultanti’ di qualcuno e, gradualmente, anche ‘consulenti’”[8].
Inoltre, è lecito pensare che alcuni filosofi nel corso dei secoli, spesso assunti dalle famiglie nobili come precettori ed educatori per i loro rampolli, abbiano avuto modo di offrire, oltre alla mera educazione e all’impartizione di saperi e nozioni, anche una qualche forma di Consulenza filosofica in merito alle più disparate vicissitudini esistenziali.
L’idea che la filosofia possa apportare benefici e miglioramenti alla vita umana non è certo così recente: Martha Nussbaum, nel suo Terapia del Desiderio [9], individua nelle tre maggiori scuole filosofiche ellenistiche (l’Epicurea, la Stoica e la Scettica) lo sviluppo di un’etica terapeutica volta a curare i malesseri del pensiero. Tutte queste scuole, infatti, “[…] sviluppano delle procedure e delle strategie miranti non solo all’efficacia sul singolo, ma anche alla creazione di comunità terapeutiche, società che vengono a sovrapporsi alla società già esistente, con norme e priorità differenti rispetto ad essa”[10]. L’estrema importanza attribuita al valore curativo della filosofia in epoca ellenica è ben sintetizzata nelle parole di Epicuro: “E’ vuoto l’argomento di quel filosofo che non riesca a guarire nessuna sofferenza dell’uomo: come non abbiamo alcun bisogno della medicina se essa non riesce ad espellere dal nostro corpo le malattie, così non abbiamo alcuna utilità della filosofia se essa non riesce a scacciare le sofferenze dell’anima”[11].
Tuttavia, l’analogia tra la cura del pensiero e quella del corpo è riscontrabile assai prima della nascita delle scuole ellenistiche. Già con l’organizzazione di una vera e propria arte medica, intesa come complesso di conoscenze e procedure trasmissibili atte a curare i dolori fisici, si fece strada nell’Antica Grecia l’idea che, così come poteva essere trovata una cura efficace per i malesseri fisici, poteva anche esistere una cura per i malesseri del pensiero e del desiderio. A questo proposito, la Nussbaum nota come già in Omero i discorsi (logoi) vengano considerati dei veri e propri rimedi in grado di curare le malattie dell’animo[12] o come in Pindaro il discorso poetico sia equiparato ad un incantesimo capace di alleggerire l’anima dai suoi turbamenti[13].
Tuttavia, in questi esempi si fa riferimento al logos nella sua accezione più generale comprendente tutte le modalità possibili del discorso. Soltanto con Democrito si attua la specificazione del carattere prettamente filosofico del discorso capace di curare l’animo dai tribolamenti delle passioni: “La medicina è l’arte che cura le malattie del corpo, la filosofia quella che sottrae l’animo al dominio delle passioni”[14].
[1] Presieduta fino al 2003 dallo stesso Achenbach, attualmente opera con il nome di Internationale Gesellschaft fϋr Philosophische Praxis (IGPP)
[2] G. Achenbach. La consulenza filosofica, p. 17
[3] Ivi, p. 14
[4] Cfr. P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, pp. 86-87
[5] Cfr. N. Pollastri. Il pensiero e la vita, p. 43
[6] P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, Apogeo, Milano 2006, p.6
[7] Ivi, p. 7
[8] A. Cavadi, Quando ha problemi chi è sano di mente. Un’introduzione al philosophical counseling, Rubettino, Soveria Mannelli 2003, cit., p. 18
[9] M. Nussbaum, Terapia del desiderio. Teoria e pratica nell’etica ellenistica. Vita e Pensiero, Milano 1998 (ed. or. The Therapy of Desire, Princeton University Press 1996
[10] Ivi, p. 46
[11] Epicuro, fr. 221
[12] Cfr. M. Nussbaum, Terapia del desiderio, p. 58
[13] Ibidem
[14] Democrito, Diels- Kranz B. 31
Da "La Consulenza filosofica: storia e modelli", Maria Devigili, Trento, 2007
Achenbach decide di fondare la Philosophische Praxis sulla scorta di una triplice insoddisfazione. Prima di tutto, quella nei confronti della filosofia accademica, a suo parere ormai totalmente estranea alle problematiche reali della vita delle persone. La seconda insoddisfazione è quella riguardante le professioni d’aiuto psicologico che, in quanto ancorate al paradigma strumentale e terapeutico, si basano su una “forma di comunicazione distorta” in cui il paziente deve sottomettersi a un qualche schema generale di normalità e salute[2].
In terzo luogo, Achenbach, vuole superare l’idea che la filosofia possa essere applicabile alla stregua di un trattamento medico: “la filosofia non viene ‘applicata’ come se i problemi dell’ospite potessero venire trattati con Platone, con Hegel, o con qualche altro. Le letture non sono una medicina che si possa precrivere. C’è forse qualcuno che va dal dottore, quando è malato, per ascoltare una lezione di medicina?”[3]. Ciò sta a significare che il consulente filosofico non è da intendersi come un esperto che applica la filosofia: egli stesso è la filosofia nel suo essere istituzione concreta e particolare.
Il consulente filosofico nella Philosophische Praxis, non mette a disposizione solo le sue conoscenza filosofiche ma anche e, soprattutto, la sua capacità di porre “in questione ciò che gli altri fanno passare per ovvio”[4],ossia quello che si può denominare come una vera e propria capacità dialogica per cui lui e la persona che lo consulterà “potranno dar vita a un dialogo filosofico, che si avvierà da concrete questioni della vita reale e rimarrà ad esse ben ancorato, grazie proprio alla presenza dell’ospite, che sperimenterà su di sé e sulla propria esistenza le riposte emerse, ma al tempo stesso si svilupperà e s’innalzerà verso l’universalità e l’astrazione della ricerca, grazie alla presenza del filosofo, che metterà in gioco tutto il suo bagaglio di conoscenze, competenze e capacità logico-argomentative”[5].
Nonostante esista un consenso pressochè unanime nel riconoscere Achenbach come fondatore ufficiale della Philosophische Praxis, sia come nuova branca della filosofia, sia come nuova professione, i consulenti di area anglosassone, tendono a ridimensionare la portata innovativa del consulente di Colonia. Secondo Peter Raabe, ad esempio, tra i precursori della Consulenza filosofica si possono annoverare Carl Rogers, Viktor Frankl e Albert Ellis, che, a partire dagli anni Cinquanta, hanno incominciato a inserire “l’elemento filosofico” nei loro rispettivi approcci psicoterapeutici[6]. Inoltre, sempre Raabe menziona un articolo di Seymon Hersh intitolato The Counseling Philosopher pubblicato sulla rivista “The Humanist” in cui il consulente viene paragonato ad una specie di allenatore il cui compito è quello di aiutare i suoi clienti a trarre maggior investimento dalla vita[7]. Del resto, è anche vero che, come scrive Augusto Cavadi, “la professione è nuova, ma sino a un certo punto: da sempre, infatti, fare filosofia ha significato diventare ‘ consultanti’ di qualcuno e, gradualmente, anche ‘consulenti’”[8].
Inoltre, è lecito pensare che alcuni filosofi nel corso dei secoli, spesso assunti dalle famiglie nobili come precettori ed educatori per i loro rampolli, abbiano avuto modo di offrire, oltre alla mera educazione e all’impartizione di saperi e nozioni, anche una qualche forma di Consulenza filosofica in merito alle più disparate vicissitudini esistenziali.
L’idea che la filosofia possa apportare benefici e miglioramenti alla vita umana non è certo così recente: Martha Nussbaum, nel suo Terapia del Desiderio [9], individua nelle tre maggiori scuole filosofiche ellenistiche (l’Epicurea, la Stoica e la Scettica) lo sviluppo di un’etica terapeutica volta a curare i malesseri del pensiero. Tutte queste scuole, infatti, “[…] sviluppano delle procedure e delle strategie miranti non solo all’efficacia sul singolo, ma anche alla creazione di comunità terapeutiche, società che vengono a sovrapporsi alla società già esistente, con norme e priorità differenti rispetto ad essa”[10]. L’estrema importanza attribuita al valore curativo della filosofia in epoca ellenica è ben sintetizzata nelle parole di Epicuro: “E’ vuoto l’argomento di quel filosofo che non riesca a guarire nessuna sofferenza dell’uomo: come non abbiamo alcun bisogno della medicina se essa non riesce ad espellere dal nostro corpo le malattie, così non abbiamo alcuna utilità della filosofia se essa non riesce a scacciare le sofferenze dell’anima”[11].
Tuttavia, l’analogia tra la cura del pensiero e quella del corpo è riscontrabile assai prima della nascita delle scuole ellenistiche. Già con l’organizzazione di una vera e propria arte medica, intesa come complesso di conoscenze e procedure trasmissibili atte a curare i dolori fisici, si fece strada nell’Antica Grecia l’idea che, così come poteva essere trovata una cura efficace per i malesseri fisici, poteva anche esistere una cura per i malesseri del pensiero e del desiderio. A questo proposito, la Nussbaum nota come già in Omero i discorsi (logoi) vengano considerati dei veri e propri rimedi in grado di curare le malattie dell’animo[12] o come in Pindaro il discorso poetico sia equiparato ad un incantesimo capace di alleggerire l’anima dai suoi turbamenti[13].
Tuttavia, in questi esempi si fa riferimento al logos nella sua accezione più generale comprendente tutte le modalità possibili del discorso. Soltanto con Democrito si attua la specificazione del carattere prettamente filosofico del discorso capace di curare l’animo dai tribolamenti delle passioni: “La medicina è l’arte che cura le malattie del corpo, la filosofia quella che sottrae l’animo al dominio delle passioni”[14].
[1] Presieduta fino al 2003 dallo stesso Achenbach, attualmente opera con il nome di Internationale Gesellschaft fϋr Philosophische Praxis (IGPP)
[2] G. Achenbach. La consulenza filosofica, p. 17
[3] Ivi, p. 14
[4] Cfr. P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, pp. 86-87
[5] Cfr. N. Pollastri. Il pensiero e la vita, p. 43
[6] P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, Apogeo, Milano 2006, p.6
[7] Ivi, p. 7
[8] A. Cavadi, Quando ha problemi chi è sano di mente. Un’introduzione al philosophical counseling, Rubettino, Soveria Mannelli 2003, cit., p. 18
[9] M. Nussbaum, Terapia del desiderio. Teoria e pratica nell’etica ellenistica. Vita e Pensiero, Milano 1998 (ed. or. The Therapy of Desire, Princeton University Press 1996
[10] Ivi, p. 46
[11] Epicuro, fr. 221
[12] Cfr. M. Nussbaum, Terapia del desiderio, p. 58
[13] Ibidem
[14] Democrito, Diels- Kranz B. 31
Da "La Consulenza filosofica: storia e modelli", Maria Devigili, Trento, 2007
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