Riporto qui sotto una parte dell'interessantissimo intervento che Jon Clayt Graziano di Phronesis (Associazione italiana per la consulenza filosofica) ha tenuto alla IX Conferenza internazionale sulla pratica filosofica svoltasi lo scorso luglio a Carloforte, in Sardegna.
Si tratta di una riflessione di estremo interesse perchè riesce a centrare in pieno quella che è, non solo una delle principali difficoltà della consulenza filosofica ma anche una delle più grandi difficoltà della filosofia stessa, naturalmente, da Platone in poi: il ritorno alla caverna.
Si tratta di una riflessione di estremo interesse perchè riesce a centrare in pieno quella che è, non solo una delle principali difficoltà della consulenza filosofica ma anche una delle più grandi difficoltà della filosofia stessa, naturalmente, da Platone in poi: il ritorno alla caverna.
Nel suo mito della caverna, che Ran Lahav porta spesso come metafora della pratica filosofica, Platone avverte di questo pericolo dell’irriconoscenza (ingratitudine). Il problema, infatti, non è quello di liberarsi dalle catene, non è ‘riuscire a girare la testa per vedere la luce ‘, come dice Lahav (1). Il vero problema viene dopo, quando i prigionieri della caverna sono incapaci di riconoscere il prigioniero liberato. Nel famoso mito il prigioniero liberato che esce dalla caverna e conosce la verità delle cose, ossia il filosofo, una volta ‘abbronzato’ dal sole della verità, allorquando rientra nella caverna per avvertire e liberare gli altri, non viene creduto, o meglio, viene creduto pazzo, deriso e poi ucciso dagli stessi prigionieri! Socrate docet! Un tale assassinio è naturale e avviene perché i prigionieri sono incatenati dall’infanzia e quindi ovviamente increduli che esista un altro mondo fuori dalla caverna: a loro non interessa certo la luce del filosofo, essi sono molto più preoccupati delle proprie ombre. Inoltre non dimentichiamo che il filosofo, rientrato nella buia caverna dopo aver contemplato la luce della verità, non vede bene, è come accecato, e appare impacciato nei suoi movimenti. E' normale che gli altri prigionieri lo ritengano come un pazzo o un ubriaco. Il filosofo praticante non è quindi colui che vede la luce dopo il buio della caverna: questi potrebbe essere anche un mistico o un pazzo. Al contrario il vero filosofo è colui che, dopo aver visto la luce decide di ritornare nel buio, spinto da un obbligo morale.
La vera vita filosofica non è quella che cerca la luce, ma quella che trova nell’oscurità. Perciò ritengo che sia molto più utile istruire un filosofo a rientrare nella caverna, piuttosto che ad uscirne.
La filosofia aiuta ad uscire dalla caverna; la pratica filosofica serve invece a saperci rientrare. Per uscire dalla caverna esistono molti metodi, che ci vengono dati si dalla filosofia, ma anche dalla musica, dall’amore, dalla pazzia stessa.
Per rientrare nella caverna, invece, i metodi diventano inutili. La pratica filosofica quindi può tranquillamente rinunciare ai metodi propri della filosofia. Essa però deve fare affidamento a competenze, ad abilità che il filosofo è tenuto ad acquisire.
Acquisire competenze equivale a saper aggiustare la vista quando, dopo aver contemplato la luce del sole, si decide di rientrare nell’oscurità della caverna. Ora, dal momento che sono convinto che in Italia (ma anche all’estero) per i prossimi venti anni non sarà ancora possibile parlare di pratica filosofica da un punto di vista professionale (sia perché la società non è ancora pronta a tollerare una simile professione, sia perché molti degli stessi filosofi non sono pronti a ‘scendere nella caverna'), e dal momento che mi ritengo alquanto giovane, mi piacerebbe spendere i prossimi anni della mia vita ad istruire i filosofi che vogliano divenire praticanti, per prepararli ad entrare più agevolmente nella caverna. In tal senso, la mia ‘arma’ preferita rimane la provocazione.
(1)
Parole di Ran Lahav durante un discorso al I Convegno Nazionale di Phronesis a Roma, il 26 febbraio 2005. Il discorso è stato poi pubblicato come articolo intitolato ‘Consulenza filosofica
come filosofia speculativa ’, sul numero 4 (Aprile 2005) della rivista Phronesis.
La vera vita filosofica non è quella che cerca la luce, ma quella che trova nell’oscurità. Perciò ritengo che sia molto più utile istruire un filosofo a rientrare nella caverna, piuttosto che ad uscirne.
La filosofia aiuta ad uscire dalla caverna; la pratica filosofica serve invece a saperci rientrare. Per uscire dalla caverna esistono molti metodi, che ci vengono dati si dalla filosofia, ma anche dalla musica, dall’amore, dalla pazzia stessa.
Per rientrare nella caverna, invece, i metodi diventano inutili. La pratica filosofica quindi può tranquillamente rinunciare ai metodi propri della filosofia. Essa però deve fare affidamento a competenze, ad abilità che il filosofo è tenuto ad acquisire.
Acquisire competenze equivale a saper aggiustare la vista quando, dopo aver contemplato la luce del sole, si decide di rientrare nell’oscurità della caverna. Ora, dal momento che sono convinto che in Italia (ma anche all’estero) per i prossimi venti anni non sarà ancora possibile parlare di pratica filosofica da un punto di vista professionale (sia perché la società non è ancora pronta a tollerare una simile professione, sia perché molti degli stessi filosofi non sono pronti a ‘scendere nella caverna'), e dal momento che mi ritengo alquanto giovane, mi piacerebbe spendere i prossimi anni della mia vita ad istruire i filosofi che vogliano divenire praticanti, per prepararli ad entrare più agevolmente nella caverna. In tal senso, la mia ‘arma’ preferita rimane la provocazione.
(1)
Parole di Ran Lahav durante un discorso al I Convegno Nazionale di Phronesis a Roma, il 26 febbraio 2005. Il discorso è stato poi pubblicato come articolo intitolato ‘Consulenza filosofica
come filosofia speculativa ’, sul numero 4 (Aprile 2005) della rivista Phronesis.
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