Durante la stesura della mia tesi ho spesso visitato il sito del filosofo pratico e consulente filosofico francese Oscar Brenifier, sito ricco di contenuti, spunti e informazioni sulla pratica filosofica in Francia e, sopratutto sulla "Philosophie pour enfants".
Dunque, ieri sono ritornata sul suo sito ed ho scoperto delle interessantissime novità: alcuni video di "consultation philosophique".
Altri suoi video sono reperibili su Google-video (in francese, in inglese e in spagnolo).
Chiaramente si tratta solo di un esempio di consulenza filosofica. Gli approcci variano molto da un consulente filosofico all'altro.
La struttura seguita da Brenifier è decisamente analitica e cartesiana. Si parte da una domanda, si isolano dei concetti e si prosegue di volta in volta verso una maggior chiarificazione. Per ora ho tradotto solo i primi 7 minuti e mezzo del video. Chi volesse collaborare e proseguire con la traduzione sarà certamente il benvenuto!
QUI EST-CE QUE JE RENCONTRE QUAND JE RENCONTRE L'AUTRE?
CHI INCONTRO QUANDO INCONTRO L'ALTRO?
A (Oscar Brenifier): Qual è la domanda?
B (Consultante) : La domanda è "Chi incontro quando incontro l'altro?"
A: Qual è il concetto che pone più problemi qui? Lei sta esitando, perchè?
B:Perchè un po' mi spaventa...
A: Cosa la spaventa?
B: L'incontro con l'altro
A: Ecco...Cos'è l'incontro? In generale, cos'è un incontro
B: E' una presenza
A: E' una presenza... e allora...cosa vuol dire essere una presenza, cosa implica "essere una presenza"?
B: Essere con, essere in ascolto, essere ascoltati
A: Bene, ora vediamo l' "altro": che cos'è?
B: E' per me
A: E' per me...Vediamo, qual è la differenza principale tra il concetto di incontro diretto (essere in ascolto e ascoltare) e dell' "altro" che è per me, come possiamo categorizzare la relazione di questi due concetti?
B: ...Nell'ascolto c'è sia presenza e di assenza
A: Bene, allora possiamo dire che ci sono due antinomie, c'è sia presenza e assenza, dunque cos'è la presenza?
B: L'incontro
A: L'incontro è la presenza. E l'altro dunque?
B: E’ l'assenza
A: Allora, qual è dunque il problema che si pone?
B: Come si può incontrare ciò che è assente…
A: Ecco, dunque: la presenza dell'assenza. Si pone il problema della presenza dell'assenza. Non ne è certa?
B: Poco
A: Perchè?
B: Perchè intorno al concetto di altro e di incontro io non ho mai fatto delle associazioni, non li ho mai associati all' assenza e alla presenza.
A: D'accordo ma il fatto che l'altro sia assenza è quello che ci preoccupa e il fatto che l'incontro sia una presenza può anche andare, non è così?
B: Sì
A: Sì, dunque il problema che si pone qui è l'altro come assenza, giusto?
B: Sì
A: Qual è il problema di definire l'altro come un'assenza?
B: ...Non c'è riconoscimento
A: Non c'è riconoscimento: se l'altro è assente non c'è riconoscimento. E del resto, in generale quando si tratta dell'altro ha senso dire che non c'è riconoscimento? L'altro che si incontra è riconoscimento o piuttosto è assenza di riconoscimento?
B: Assenza di riconoscimento. Perchè se si può incontrare, chi non lo fa è assente, chi non lo fa è altro.
A: Ma lei dice "si può" incontrare. Può incontrare qualuno che è qua? Come lo conosce? Se lei lo ha già conosciuto lo può incontrare?
B: Ma è un processo...C'è un processo di riconoscimento con l'incontro
A: Ma come può incontrarlo se lui è già qua?
B: Mh...
A: Dov' è il problema? Se io dico che è qua lui è già incontrato. Ma se io dico che posso incontrare...Chi posso incontrare?
B: Quello che non è qua
A: Dunque io posso incontrare unicamente colui che non è qua. Le sembra strano?Allora ripartiamo:Chi incontro quando incontro l'altro? Cosa rispondiamo?
B: Quello che non è qua
A: Però, se io lo incontro...Chi incontro: quello che è altro o quello che non è altro?
B: Quello che non è altro
A: Chi incontro quando incontro l'altro?
B: Me
A: Interessante...e ora analizziamo: è possibile che quando incontro l'altro io incontri me stesso?
Considerazioni preliminari
Innanzitutto, è bene precisare che non sono una consulente filosofica o una sedicente tale (purtroppo, esiste anche questa categoria). L'obiettivo di questo blog è quello di fornire alcune informazioni di base sul mondo della Consulenza filosofica. Ho avuto modo di svolgere delle ricerche sulle pratiche filosofiche e, in particolare, sulla consulenza: il frutto di queste ricerche è la mia tesi di laurea. Credo che esistano molti luoghi comuni sulla Consulenza filosofica, probabilmente legati a quelli sulla Filosofia, spesso originati dalla superficialità con cui essa viene presentata. Non pretendo di dissolvere completamente i vostri dubbi ma semplicemente di costruire una sorta di "spazio neutro"; sia ben chiaro, la neutralità assoluta non esiste, ognuno parte da supposizioni e, in effetti, io ho una mia precisa idea della consulenza filosofica. Semplicemente, non sono una consulente filosofica, non ho nessun servizio da offrire, non devo convincere nessuno della bontà della mia missione.
martedì 20 novembre 2007
lunedì 19 novembre 2007
LE ORIGINI: GERMANIA E AUSTRIA
Sulla scorta dell’iniziativa di Achenbach, in Germania si è assistito ad una rapida fioritura di esperienze analoghe, dall’apertura di studi professionali alla pubblicazione di libri sull’argomento. Nel giro di qualche anno, la pratica si è estesa in Olanda, Norvegia, Israele, Inghilterra e in altre nazioni europee, solo successivamente, negli anni Novanta, è approdata in USA e Canada.
Va rilevato subito il fatto che, come succede assai sovente per tutte le nuove discipline e professioni, specie se queste sono caratterizzate da una certa apertura di fondo, non sono mancati i fraintendimenti della materia, soprattutto nel senso di una commistione, spesso superficiale, con le pratiche orientali o con le psicoterapie.
Ad esempio, per Steffen Graege, consulente filosofico ad Amburgo a partire dal 1983, la Philosophisce Praxis può comprendere “l’uso accessorio di metodi più propriamente psicoterapeutici come le libere associazioni, l’interpretazione dei sogni, la meditazione, il rilassamento, fino a trattamenti psicofisici quali lo yoga e il tai-chi”.[1]
Il sociologo Alexandre Dill invece, il cui studio rimase aperto dal 1984 al 1990 a Berlino e, in quanto stipendiato dall’amministazione pubblica, può essere ricordato come uno dei primi consulenti filosofici “non commerciali”[2], considera la Philosophische Praxis come una forma di “amore per il dialogo”, un’attività senza significato e senza alcuna finalità pratica.
Per Dill, che s’ispira fortemente alla filosofia orientale e in particolare alla pratica zen del kōan[3], il dialogo socratico non è un dialogo autentico in quanto mira a ottenere, a una data domanda, una data risposta. Come scrive la Schuster: “Le intenzioni che stanno alla base della pratica di Dill sono paradossali: la negazione delle negazioni. Dill considera le nozioni di sé come altrettante facce del culto dell’identità occidentale, cioè l’io o l’egocentrismo di molte teorie psicologiche”.[4]
Il suo libro intitolato Philosophische Praxis uscito nel 1990, il primo testo monografico sull’argomento, è stato criticato duramente da molti membri dell’associazione tedesca della Philosophisce Praxis, per la presunta mancanza di contenuti filosofici.[5]
Tutt’altra visione quella di Günther Witzany che, nel 1985, apre il primo studio di Consulenza filosofica in Austria. Witzany, facendo suo l’insegnamento di Habermas e Apel e dell’etica della responsabilità di Jonas, assegna alla Philosophische Praxis un compito ben preciso: da una parte, quello di fornire informazioni sulle possibili conseguenze di un uso sconsiderato della tecnica, dall’altra quello di formare individui in armonia con la natura e consapevoli del proprio agire nei confronti del mondo. Ma una tale concezione, per quanto teoricamente fondata, si discosta enormemente dall’ideale achenbachiano di dialogo filosofico aperto e non pre-determinato. Per Achenbach, il consulente deve essere in grado di mettere in discussione se stesso, le sue conoscenze e le sue convinzioni: deve mantenersi quindi perennemente aperto alla comprensione dell’ospite, e per farlo, deve abbandonare tutte le sue “griglie mentali”.
Nel vasto panorama tedesco, una figura particolarmente interessante è senz’altro quella di Eckart Ruschmann: sovvenzionato da una borsa di ricerca annuale dell’Università di Costanza, ha potuto intraprendere uno dei primi studi seri e approfonditi sulla Consulenza filosofica. Le ricerche e le riflessioni di Ruschmann hanno trovato forma nell’opera Philosophische Beratung[6].
Il suo libro, uscito in Germania nel 1999, è stato subito salutato come uno dei più dettagliati contributi alla fondazione teoretico-riflessiva della disciplina.
Bisogna aggiungere il fatto che la riflessione di Ruschmann risulta particolarmente significativa anche grazie alla sua precedente esperienza in qualità di counselour psicologico ad orientamento umanistico. Probabilmente, anche per coerenza rispetto al suo percorso professionale, nel suo pensiero è assente la critica achenbachiana all’approccio psicoanalitico e al modello terapeutico: molto semplicemente, egli considera la Consulenza filosofica come un tipo di consulenza professionale, distinta ma non certo contrapposta alla psicoterapia[7].
Ruschmann, inoltre, non manca di sottolineare come i consulenti filosofici, nella loro critica al modello medico-diagnostico, tendano a utilizzare i termini “psicoterapia” e “psicoanalisi” in maniera quasi interscambiabile. Questo, nonostante si siano sviluppate, dopo la morte di Freud e dei suoi successori, diversi modi di intendere la psicoanalisi con la conseguente articolazione di diversi tipi di psicoterapia, spesso anche molto distanti dalla teoria freudiana[8]. Ma per Ruschmann non solo è necessario chiarire questa distinzione: nella formazione alla Consulenza filosofica dovrebbe essere comunque sempre presente lo studio della psicologia clinica e diagnostica, “in assenza della quale l’esercizio dell’attività di consulenza è definito critico”, se non pericoloso[9].
Per il consulente tedesco l’operato della Consulenza filosofica è equiparabile a un lavoro di “interpretazione e ricostruzione della visione della realtà del cliente” capace di porre le basi per una “modificazione del rapporto con sé e con il mondo”[10] ; due sono gli elementi basilari nella teoria della Consulenza filosofica: un modello strutturale dei rapporti psichici, da cui non si può prescindere, e una teoria del comprendere. Per Ruschmann, la filosofia ha finito per concentrarsi solo sui concetti e le astrazioni del pensiero cosiddetto “puro”, con il risultato di trascurare altri aspetti non meno importanti, come gli stati d’animo e le emozioni, troppo spesso relegati all’ambito di un generico”sentire”.
Egli intende così dare forma a un modello empatico capace di considerare l’individuo nella sua globalità. Questo modello deve essere in grado di considerare anche “il ruolo degli aspetti intellettivi sul comportamento degli individui, troppo spesso marginalizzati dagli approcci psicologico-emozionali”[11].
La dimensione valoriale, inoltre, gioca spesso un ruolo determinante nell’esistenza individuale: sono i valori, infatti, che decidono “quali impulsi debbano venir realizzati e quali no”. Lo scollamento tra il sapere e l’agire, tra i valori più profondi dell’individuo e i suoi comportamenti può portare a un forte disagio esistenziale, che Ruschmann assimila a uno stato di “fondamentale alienazione”. Questo può avvenire quando si assumono in modo passivo valori provenienti dall’esterno (ruoli sociali, norme ecc.), magari per consuetudine, conformismo e convenienza sociale. Per questo motivo nella Consulenza filosofica l’etica assume un ruolo di primo piano: Ruschmann denomina la capacità etica (Ethische Kőnnen) come “l’attitudine a fronteggiare in modo adeguato situazioni problematiche, mantenendo in stretta unità sapere e agire”[12].
In particolare, la Ethische Kőnnen si basa sul presupposto “che i propri principi etici siano esplicitamente coscienti e ripetutamente studiati e provati, e contemporaneamente che la percezione e il corrispondente sentimento siano, in situazioni concrete, precisamente commisurati”.
Oltre a quella di etica, un’altra nozione centrale nella riflessione di Ruschmann sulla Consulenza filosofica, è quella di saggezza che egli denomina come una forma di sapere acquisibile solo con l’esperienza e che consiste nell’ ”avere piena consapevolezza delle proprie reazioni nei confronti del partner dialogico” e nell’essere in grado di bilanciare “le spesso contrastanti valenze di cognizione, affetto e volontà”[13].
Va rilevato subito il fatto che, come succede assai sovente per tutte le nuove discipline e professioni, specie se queste sono caratterizzate da una certa apertura di fondo, non sono mancati i fraintendimenti della materia, soprattutto nel senso di una commistione, spesso superficiale, con le pratiche orientali o con le psicoterapie.
Ad esempio, per Steffen Graege, consulente filosofico ad Amburgo a partire dal 1983, la Philosophisce Praxis può comprendere “l’uso accessorio di metodi più propriamente psicoterapeutici come le libere associazioni, l’interpretazione dei sogni, la meditazione, il rilassamento, fino a trattamenti psicofisici quali lo yoga e il tai-chi”.[1]
Il sociologo Alexandre Dill invece, il cui studio rimase aperto dal 1984 al 1990 a Berlino e, in quanto stipendiato dall’amministazione pubblica, può essere ricordato come uno dei primi consulenti filosofici “non commerciali”[2], considera la Philosophische Praxis come una forma di “amore per il dialogo”, un’attività senza significato e senza alcuna finalità pratica.
Per Dill, che s’ispira fortemente alla filosofia orientale e in particolare alla pratica zen del kōan[3], il dialogo socratico non è un dialogo autentico in quanto mira a ottenere, a una data domanda, una data risposta. Come scrive la Schuster: “Le intenzioni che stanno alla base della pratica di Dill sono paradossali: la negazione delle negazioni. Dill considera le nozioni di sé come altrettante facce del culto dell’identità occidentale, cioè l’io o l’egocentrismo di molte teorie psicologiche”.[4]
Il suo libro intitolato Philosophische Praxis uscito nel 1990, il primo testo monografico sull’argomento, è stato criticato duramente da molti membri dell’associazione tedesca della Philosophisce Praxis, per la presunta mancanza di contenuti filosofici.[5]
Tutt’altra visione quella di Günther Witzany che, nel 1985, apre il primo studio di Consulenza filosofica in Austria. Witzany, facendo suo l’insegnamento di Habermas e Apel e dell’etica della responsabilità di Jonas, assegna alla Philosophische Praxis un compito ben preciso: da una parte, quello di fornire informazioni sulle possibili conseguenze di un uso sconsiderato della tecnica, dall’altra quello di formare individui in armonia con la natura e consapevoli del proprio agire nei confronti del mondo. Ma una tale concezione, per quanto teoricamente fondata, si discosta enormemente dall’ideale achenbachiano di dialogo filosofico aperto e non pre-determinato. Per Achenbach, il consulente deve essere in grado di mettere in discussione se stesso, le sue conoscenze e le sue convinzioni: deve mantenersi quindi perennemente aperto alla comprensione dell’ospite, e per farlo, deve abbandonare tutte le sue “griglie mentali”.
Nel vasto panorama tedesco, una figura particolarmente interessante è senz’altro quella di Eckart Ruschmann: sovvenzionato da una borsa di ricerca annuale dell’Università di Costanza, ha potuto intraprendere uno dei primi studi seri e approfonditi sulla Consulenza filosofica. Le ricerche e le riflessioni di Ruschmann hanno trovato forma nell’opera Philosophische Beratung[6].
Il suo libro, uscito in Germania nel 1999, è stato subito salutato come uno dei più dettagliati contributi alla fondazione teoretico-riflessiva della disciplina.
Bisogna aggiungere il fatto che la riflessione di Ruschmann risulta particolarmente significativa anche grazie alla sua precedente esperienza in qualità di counselour psicologico ad orientamento umanistico. Probabilmente, anche per coerenza rispetto al suo percorso professionale, nel suo pensiero è assente la critica achenbachiana all’approccio psicoanalitico e al modello terapeutico: molto semplicemente, egli considera la Consulenza filosofica come un tipo di consulenza professionale, distinta ma non certo contrapposta alla psicoterapia[7].
Ruschmann, inoltre, non manca di sottolineare come i consulenti filosofici, nella loro critica al modello medico-diagnostico, tendano a utilizzare i termini “psicoterapia” e “psicoanalisi” in maniera quasi interscambiabile. Questo, nonostante si siano sviluppate, dopo la morte di Freud e dei suoi successori, diversi modi di intendere la psicoanalisi con la conseguente articolazione di diversi tipi di psicoterapia, spesso anche molto distanti dalla teoria freudiana[8]. Ma per Ruschmann non solo è necessario chiarire questa distinzione: nella formazione alla Consulenza filosofica dovrebbe essere comunque sempre presente lo studio della psicologia clinica e diagnostica, “in assenza della quale l’esercizio dell’attività di consulenza è definito critico”, se non pericoloso[9].
Per il consulente tedesco l’operato della Consulenza filosofica è equiparabile a un lavoro di “interpretazione e ricostruzione della visione della realtà del cliente” capace di porre le basi per una “modificazione del rapporto con sé e con il mondo”[10] ; due sono gli elementi basilari nella teoria della Consulenza filosofica: un modello strutturale dei rapporti psichici, da cui non si può prescindere, e una teoria del comprendere. Per Ruschmann, la filosofia ha finito per concentrarsi solo sui concetti e le astrazioni del pensiero cosiddetto “puro”, con il risultato di trascurare altri aspetti non meno importanti, come gli stati d’animo e le emozioni, troppo spesso relegati all’ambito di un generico”sentire”.
Egli intende così dare forma a un modello empatico capace di considerare l’individuo nella sua globalità. Questo modello deve essere in grado di considerare anche “il ruolo degli aspetti intellettivi sul comportamento degli individui, troppo spesso marginalizzati dagli approcci psicologico-emozionali”[11].
La dimensione valoriale, inoltre, gioca spesso un ruolo determinante nell’esistenza individuale: sono i valori, infatti, che decidono “quali impulsi debbano venir realizzati e quali no”. Lo scollamento tra il sapere e l’agire, tra i valori più profondi dell’individuo e i suoi comportamenti può portare a un forte disagio esistenziale, che Ruschmann assimila a uno stato di “fondamentale alienazione”. Questo può avvenire quando si assumono in modo passivo valori provenienti dall’esterno (ruoli sociali, norme ecc.), magari per consuetudine, conformismo e convenienza sociale. Per questo motivo nella Consulenza filosofica l’etica assume un ruolo di primo piano: Ruschmann denomina la capacità etica (Ethische Kőnnen) come “l’attitudine a fronteggiare in modo adeguato situazioni problematiche, mantenendo in stretta unità sapere e agire”[12].
In particolare, la Ethische Kőnnen si basa sul presupposto “che i propri principi etici siano esplicitamente coscienti e ripetutamente studiati e provati, e contemporaneamente che la percezione e il corrispondente sentimento siano, in situazioni concrete, precisamente commisurati”.
Oltre a quella di etica, un’altra nozione centrale nella riflessione di Ruschmann sulla Consulenza filosofica, è quella di saggezza che egli denomina come una forma di sapere acquisibile solo con l’esperienza e che consiste nell’ ”avere piena consapevolezza delle proprie reazioni nei confronti del partner dialogico” e nell’essere in grado di bilanciare “le spesso contrastanti valenze di cognizione, affetto e volontà”[13].
(foto1: Alexandre Dill; foto2: Günther Witzany; foto3: Eckart Ruschmann)
[1] Cfr. N. Pollastri, Il pensiero e la vita, p. 55
[2] Ivi. p. 56
[3] Il kōan è una frase paradossale o un problema la cui soluzione non può essere logica
[4] Cfr. S. Schuster, La pratica filosofica, cit., p. 53
[5] Ivi, p. 54
[6] E. Ruschmann, Philosophische Beratung, Kohlhammer, Stuttgart 1999. Attualmente, In Italia, è disponibile solo la traduzione della prima parte dell’opera con il titolo Consulenza filosofica, , Armando Siciliano Editore, Messina 2004 con un’accurata nota introduttiva dal titolo La consulenza filosofica nell’orizzonte di senso della filosofia pratica, Introduzione a Eckart Ruschmann a cura di Rosaria Longo.
[7] M. Zonza, Eckart Ruschmann, Consulenza filosofica, in “Phronesis”, 5, 2005, p.58
[8] P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, Apogeo, Milano, 2006, p. 91
[9] Cfr. M. Zonza, Eckart Ruschmann, Consulenza filosofica, in “Phronesis”, 5, 2005, p.61
[10] E. Ruschmann, Philosophische Beratung, Kohlhammer, Stüttgart, cit. in N. Pollastri, Il pensiero e la vita, p. 80 e sgg, 1999, p. 33
[11] Tutte le citazioni di Eckart Ruschmann sono tratte da N. Pollastri, Il pensiero e la vita, pp. 80-84
[12] Ivi, p. 81
[13] Ivi, p. 84
Da "La Consulenza filosofica: storia e modelli", Maria Devigili, Trento, 2007)
[1] Cfr. N. Pollastri, Il pensiero e la vita, p. 55
[2] Ivi. p. 56
[3] Il kōan è una frase paradossale o un problema la cui soluzione non può essere logica
[4] Cfr. S. Schuster, La pratica filosofica, cit., p. 53
[5] Ivi, p. 54
[6] E. Ruschmann, Philosophische Beratung, Kohlhammer, Stuttgart 1999. Attualmente, In Italia, è disponibile solo la traduzione della prima parte dell’opera con il titolo Consulenza filosofica, , Armando Siciliano Editore, Messina 2004 con un’accurata nota introduttiva dal titolo La consulenza filosofica nell’orizzonte di senso della filosofia pratica, Introduzione a Eckart Ruschmann a cura di Rosaria Longo.
[7] M. Zonza, Eckart Ruschmann, Consulenza filosofica, in “Phronesis”, 5, 2005, p.58
[8] P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, Apogeo, Milano, 2006, p. 91
[9] Cfr. M. Zonza, Eckart Ruschmann, Consulenza filosofica, in “Phronesis”, 5, 2005, p.61
[10] E. Ruschmann, Philosophische Beratung, Kohlhammer, Stüttgart, cit. in N. Pollastri, Il pensiero e la vita, p. 80 e sgg, 1999, p. 33
[11] Tutte le citazioni di Eckart Ruschmann sono tratte da N. Pollastri, Il pensiero e la vita, pp. 80-84
[12] Ivi, p. 81
[13] Ivi, p. 84
Da "La Consulenza filosofica: storia e modelli", Maria Devigili, Trento, 2007)
giovedì 15 novembre 2007
Breve storia della Consulenza filosofica
La Consulenza filosofica nasce in Germania con il nome di Philosophische Praxis ad opera di Gerd Achenbach che, nel maggio del 1981, a Bergisch Gladbach, cittadina situata in un territorio boscoso della Bergisches Land, vicino a Colonia, apre il primo studio professionale di Consulenza filosofica (Institut fϋr Philosophische Praxis und Beratung). L’anno seguente, fonda la prima associazione di consulenti: la Gesellschaft fur Philosophisce Praxis (GPP).[1]
Achenbach decide di fondare la Philosophische Praxis sulla scorta di una triplice insoddisfazione. Prima di tutto, quella nei confronti della filosofia accademica, a suo parere ormai totalmente estranea alle problematiche reali della vita delle persone. La seconda insoddisfazione è quella riguardante le professioni d’aiuto psicologico che, in quanto ancorate al paradigma strumentale e terapeutico, si basano su una “forma di comunicazione distorta” in cui il paziente deve sottomettersi a un qualche schema generale di normalità e salute[2].
In terzo luogo, Achenbach, vuole superare l’idea che la filosofia possa essere applicabile alla stregua di un trattamento medico: “la filosofia non viene ‘applicata’ come se i problemi dell’ospite potessero venire trattati con Platone, con Hegel, o con qualche altro. Le letture non sono una medicina che si possa precrivere. C’è forse qualcuno che va dal dottore, quando è malato, per ascoltare una lezione di medicina?”[3]. Ciò sta a significare che il consulente filosofico non è da intendersi come un esperto che applica la filosofia: egli stesso è la filosofia nel suo essere istituzione concreta e particolare.
Il consulente filosofico nella Philosophische Praxis, non mette a disposizione solo le sue conoscenza filosofiche ma anche e, soprattutto, la sua capacità di porre “in questione ciò che gli altri fanno passare per ovvio”[4],ossia quello che si può denominare come una vera e propria capacità dialogica per cui lui e la persona che lo consulterà “potranno dar vita a un dialogo filosofico, che si avvierà da concrete questioni della vita reale e rimarrà ad esse ben ancorato, grazie proprio alla presenza dell’ospite, che sperimenterà su di sé e sulla propria esistenza le riposte emerse, ma al tempo stesso si svilupperà e s’innalzerà verso l’universalità e l’astrazione della ricerca, grazie alla presenza del filosofo, che metterà in gioco tutto il suo bagaglio di conoscenze, competenze e capacità logico-argomentative”[5].
Nonostante esista un consenso pressochè unanime nel riconoscere Achenbach come fondatore ufficiale della Philosophische Praxis, sia come nuova branca della filosofia, sia come nuova professione, i consulenti di area anglosassone, tendono a ridimensionare la portata innovativa del consulente di Colonia. Secondo Peter Raabe, ad esempio, tra i precursori della Consulenza filosofica si possono annoverare Carl Rogers, Viktor Frankl e Albert Ellis, che, a partire dagli anni Cinquanta, hanno incominciato a inserire “l’elemento filosofico” nei loro rispettivi approcci psicoterapeutici[6]. Inoltre, sempre Raabe menziona un articolo di Seymon Hersh intitolato The Counseling Philosopher pubblicato sulla rivista “The Humanist” in cui il consulente viene paragonato ad una specie di allenatore il cui compito è quello di aiutare i suoi clienti a trarre maggior investimento dalla vita[7]. Del resto, è anche vero che, come scrive Augusto Cavadi, “la professione è nuova, ma sino a un certo punto: da sempre, infatti, fare filosofia ha significato diventare ‘ consultanti’ di qualcuno e, gradualmente, anche ‘consulenti’”[8].
Inoltre, è lecito pensare che alcuni filosofi nel corso dei secoli, spesso assunti dalle famiglie nobili come precettori ed educatori per i loro rampolli, abbiano avuto modo di offrire, oltre alla mera educazione e all’impartizione di saperi e nozioni, anche una qualche forma di Consulenza filosofica in merito alle più disparate vicissitudini esistenziali.
L’idea che la filosofia possa apportare benefici e miglioramenti alla vita umana non è certo così recente: Martha Nussbaum, nel suo Terapia del Desiderio [9], individua nelle tre maggiori scuole filosofiche ellenistiche (l’Epicurea, la Stoica e la Scettica) lo sviluppo di un’etica terapeutica volta a curare i malesseri del pensiero. Tutte queste scuole, infatti, “[…] sviluppano delle procedure e delle strategie miranti non solo all’efficacia sul singolo, ma anche alla creazione di comunità terapeutiche, società che vengono a sovrapporsi alla società già esistente, con norme e priorità differenti rispetto ad essa”[10]. L’estrema importanza attribuita al valore curativo della filosofia in epoca ellenica è ben sintetizzata nelle parole di Epicuro: “E’ vuoto l’argomento di quel filosofo che non riesca a guarire nessuna sofferenza dell’uomo: come non abbiamo alcun bisogno della medicina se essa non riesce ad espellere dal nostro corpo le malattie, così non abbiamo alcuna utilità della filosofia se essa non riesce a scacciare le sofferenze dell’anima”[11].
Tuttavia, l’analogia tra la cura del pensiero e quella del corpo è riscontrabile assai prima della nascita delle scuole ellenistiche. Già con l’organizzazione di una vera e propria arte medica, intesa come complesso di conoscenze e procedure trasmissibili atte a curare i dolori fisici, si fece strada nell’Antica Grecia l’idea che, così come poteva essere trovata una cura efficace per i malesseri fisici, poteva anche esistere una cura per i malesseri del pensiero e del desiderio. A questo proposito, la Nussbaum nota come già in Omero i discorsi (logoi) vengano considerati dei veri e propri rimedi in grado di curare le malattie dell’animo[12] o come in Pindaro il discorso poetico sia equiparato ad un incantesimo capace di alleggerire l’anima dai suoi turbamenti[13].
Tuttavia, in questi esempi si fa riferimento al logos nella sua accezione più generale comprendente tutte le modalità possibili del discorso. Soltanto con Democrito si attua la specificazione del carattere prettamente filosofico del discorso capace di curare l’animo dai tribolamenti delle passioni: “La medicina è l’arte che cura le malattie del corpo, la filosofia quella che sottrae l’animo al dominio delle passioni”[14].
[1] Presieduta fino al 2003 dallo stesso Achenbach, attualmente opera con il nome di Internationale Gesellschaft fϋr Philosophische Praxis (IGPP)
[2] G. Achenbach. La consulenza filosofica, p. 17
[3] Ivi, p. 14
[4] Cfr. P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, pp. 86-87
[5] Cfr. N. Pollastri. Il pensiero e la vita, p. 43
[6] P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, Apogeo, Milano 2006, p.6
[7] Ivi, p. 7
[8] A. Cavadi, Quando ha problemi chi è sano di mente. Un’introduzione al philosophical counseling, Rubettino, Soveria Mannelli 2003, cit., p. 18
[9] M. Nussbaum, Terapia del desiderio. Teoria e pratica nell’etica ellenistica. Vita e Pensiero, Milano 1998 (ed. or. The Therapy of Desire, Princeton University Press 1996
[10] Ivi, p. 46
[11] Epicuro, fr. 221
[12] Cfr. M. Nussbaum, Terapia del desiderio, p. 58
[13] Ibidem
[14] Democrito, Diels- Kranz B. 31
Da "La Consulenza filosofica: storia e modelli", Maria Devigili, Trento, 2007
Achenbach decide di fondare la Philosophische Praxis sulla scorta di una triplice insoddisfazione. Prima di tutto, quella nei confronti della filosofia accademica, a suo parere ormai totalmente estranea alle problematiche reali della vita delle persone. La seconda insoddisfazione è quella riguardante le professioni d’aiuto psicologico che, in quanto ancorate al paradigma strumentale e terapeutico, si basano su una “forma di comunicazione distorta” in cui il paziente deve sottomettersi a un qualche schema generale di normalità e salute[2].
In terzo luogo, Achenbach, vuole superare l’idea che la filosofia possa essere applicabile alla stregua di un trattamento medico: “la filosofia non viene ‘applicata’ come se i problemi dell’ospite potessero venire trattati con Platone, con Hegel, o con qualche altro. Le letture non sono una medicina che si possa precrivere. C’è forse qualcuno che va dal dottore, quando è malato, per ascoltare una lezione di medicina?”[3]. Ciò sta a significare che il consulente filosofico non è da intendersi come un esperto che applica la filosofia: egli stesso è la filosofia nel suo essere istituzione concreta e particolare.
Il consulente filosofico nella Philosophische Praxis, non mette a disposizione solo le sue conoscenza filosofiche ma anche e, soprattutto, la sua capacità di porre “in questione ciò che gli altri fanno passare per ovvio”[4],ossia quello che si può denominare come una vera e propria capacità dialogica per cui lui e la persona che lo consulterà “potranno dar vita a un dialogo filosofico, che si avvierà da concrete questioni della vita reale e rimarrà ad esse ben ancorato, grazie proprio alla presenza dell’ospite, che sperimenterà su di sé e sulla propria esistenza le riposte emerse, ma al tempo stesso si svilupperà e s’innalzerà verso l’universalità e l’astrazione della ricerca, grazie alla presenza del filosofo, che metterà in gioco tutto il suo bagaglio di conoscenze, competenze e capacità logico-argomentative”[5].
Nonostante esista un consenso pressochè unanime nel riconoscere Achenbach come fondatore ufficiale della Philosophische Praxis, sia come nuova branca della filosofia, sia come nuova professione, i consulenti di area anglosassone, tendono a ridimensionare la portata innovativa del consulente di Colonia. Secondo Peter Raabe, ad esempio, tra i precursori della Consulenza filosofica si possono annoverare Carl Rogers, Viktor Frankl e Albert Ellis, che, a partire dagli anni Cinquanta, hanno incominciato a inserire “l’elemento filosofico” nei loro rispettivi approcci psicoterapeutici[6]. Inoltre, sempre Raabe menziona un articolo di Seymon Hersh intitolato The Counseling Philosopher pubblicato sulla rivista “The Humanist” in cui il consulente viene paragonato ad una specie di allenatore il cui compito è quello di aiutare i suoi clienti a trarre maggior investimento dalla vita[7]. Del resto, è anche vero che, come scrive Augusto Cavadi, “la professione è nuova, ma sino a un certo punto: da sempre, infatti, fare filosofia ha significato diventare ‘ consultanti’ di qualcuno e, gradualmente, anche ‘consulenti’”[8].
Inoltre, è lecito pensare che alcuni filosofi nel corso dei secoli, spesso assunti dalle famiglie nobili come precettori ed educatori per i loro rampolli, abbiano avuto modo di offrire, oltre alla mera educazione e all’impartizione di saperi e nozioni, anche una qualche forma di Consulenza filosofica in merito alle più disparate vicissitudini esistenziali.
L’idea che la filosofia possa apportare benefici e miglioramenti alla vita umana non è certo così recente: Martha Nussbaum, nel suo Terapia del Desiderio [9], individua nelle tre maggiori scuole filosofiche ellenistiche (l’Epicurea, la Stoica e la Scettica) lo sviluppo di un’etica terapeutica volta a curare i malesseri del pensiero. Tutte queste scuole, infatti, “[…] sviluppano delle procedure e delle strategie miranti non solo all’efficacia sul singolo, ma anche alla creazione di comunità terapeutiche, società che vengono a sovrapporsi alla società già esistente, con norme e priorità differenti rispetto ad essa”[10]. L’estrema importanza attribuita al valore curativo della filosofia in epoca ellenica è ben sintetizzata nelle parole di Epicuro: “E’ vuoto l’argomento di quel filosofo che non riesca a guarire nessuna sofferenza dell’uomo: come non abbiamo alcun bisogno della medicina se essa non riesce ad espellere dal nostro corpo le malattie, così non abbiamo alcuna utilità della filosofia se essa non riesce a scacciare le sofferenze dell’anima”[11].
Tuttavia, l’analogia tra la cura del pensiero e quella del corpo è riscontrabile assai prima della nascita delle scuole ellenistiche. Già con l’organizzazione di una vera e propria arte medica, intesa come complesso di conoscenze e procedure trasmissibili atte a curare i dolori fisici, si fece strada nell’Antica Grecia l’idea che, così come poteva essere trovata una cura efficace per i malesseri fisici, poteva anche esistere una cura per i malesseri del pensiero e del desiderio. A questo proposito, la Nussbaum nota come già in Omero i discorsi (logoi) vengano considerati dei veri e propri rimedi in grado di curare le malattie dell’animo[12] o come in Pindaro il discorso poetico sia equiparato ad un incantesimo capace di alleggerire l’anima dai suoi turbamenti[13].
Tuttavia, in questi esempi si fa riferimento al logos nella sua accezione più generale comprendente tutte le modalità possibili del discorso. Soltanto con Democrito si attua la specificazione del carattere prettamente filosofico del discorso capace di curare l’animo dai tribolamenti delle passioni: “La medicina è l’arte che cura le malattie del corpo, la filosofia quella che sottrae l’animo al dominio delle passioni”[14].
[1] Presieduta fino al 2003 dallo stesso Achenbach, attualmente opera con il nome di Internationale Gesellschaft fϋr Philosophische Praxis (IGPP)
[2] G. Achenbach. La consulenza filosofica, p. 17
[3] Ivi, p. 14
[4] Cfr. P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, pp. 86-87
[5] Cfr. N. Pollastri. Il pensiero e la vita, p. 43
[6] P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, Apogeo, Milano 2006, p.6
[7] Ivi, p. 7
[8] A. Cavadi, Quando ha problemi chi è sano di mente. Un’introduzione al philosophical counseling, Rubettino, Soveria Mannelli 2003, cit., p. 18
[9] M. Nussbaum, Terapia del desiderio. Teoria e pratica nell’etica ellenistica. Vita e Pensiero, Milano 1998 (ed. or. The Therapy of Desire, Princeton University Press 1996
[10] Ivi, p. 46
[11] Epicuro, fr. 221
[12] Cfr. M. Nussbaum, Terapia del desiderio, p. 58
[13] Ibidem
[14] Democrito, Diels- Kranz B. 31
Da "La Consulenza filosofica: storia e modelli", Maria Devigili, Trento, 2007
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